26 settembre 2006

La scrittura ai tempi del virtuale

William Talcott, poeta amico di Neal Cassidy, è morto portando via con sé la password delle email in cui conservava gran parte delle sue opere.
I figli hanno chiesto a Yahoo i dati per recuperare il materiale, ma si sono sentiti rispondere che la privacy è uguale per tutti. Forse Talcott ha sbagliato provider di posta: Yahoo è una delle città infernali di Italo Calvino, e si sa, l'inferno non restituisce mai ciò che ha preso.


Al di là dell'episodio, quello della scrittura virtuale è un tema sul quale si potrebbe dibattere a lungo. Il rapporto con la carta e la penna è ben diverso da quello con lo schermo, a cominciare dalla fisicità: il foglio è orizzontale, lo screen è verticale.
Il gesto di guardare verso il basso evoca una certa profondità introspettiva: una foto di uno scrittore chino sul foglio è certo più poetica di un'immagine di un uomo al computer e, facendo un passo in avanti, il picchiettare dei caratteri sul foglio della Royal di Hemingway è musica di fronte al silenzioso scorrere delle parole sullo schermo del pc. La penna poi è incomparabile: la stringi, la mordicchi, ti ci gratti l'orecchio.

Per quel che riguarda la scrittura come materia prodotta, poi, la freddezza del computer è risaputa. La calligrafia è una delle note più personali della persona umana. Nessun Times New Roman o Lucida sans, potrà mai raggiungere la poesia insita in una firma e gli appunti di Leonardo, scritti al contrario, sono un'opera d'arte al di là del contenuto.
O ancora, si potrebbe parlare, riguardo la scrittura a mano, del fatto di non potere tornare indietro, di non potere materialmente cancellare la parola, del comandamento scripta manent, che si imprime sul foglio di carta, una volta per sempre, nonostante la riga tirata a correzione dell'originale. Tutto ciò va perduto sullo schermo. Pensiamo all'edizione Fermo e Lucia dei Promessi Sposi: cosa ne sarebbe stato ai tempi del pc? Fisicamente, insomma, non c'è paragone.

Tutto ciò influenza i contenuti? Non più di tanto. Alle olimpiadi di Roma, nel 1960 Abebe Bikila vinse le olimpiadi senza scarpe. Nel 1964 a Tokyo bissò il successo, con le scarpe ai piedi. Il talento è talento: sa passare attraverso qualsiasi mezzo. Proviamo ad immaginare un paese dell'Africa, un piccolo di tre anni che suona il tam tam in maniera divina, un Mozart nero, di cui il mondo non verrà mai a conoscenza. Non conosce una riga di musica eppure al suo battere sui tamburi le upupe interrompono il loro canto e i rinoceronti arrestano la loro corsa furiosa. Scusate, sto divagando: saranno i colpi dei palmi bianchi sulla membrana del doun doun o forse soltanto il bussare del cuore su queste pareti troppo strette…

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